UN PO’ DI PSICOLOGIA

© Alessandro Bares, 2019

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È opinione piuttosto diffusa che la distonia non sia un disturbo di origine psicosomatica, o almeno non nel senso proprio del termine, non è cioè la manifestazione fisica di un disagio puramente psicologico.

Condivido questa opinione: durante i miei quattro anni di terapia avevo semmai l’impressione che fosse la mia vita psicologica ad essere negativamente influenzata dalla distonia focale, più che il contrario. Di questo vorrei parlare in questo capitolo.

L’impatto emotivo della distonia focale sulla vita di un musicista può essere devastante. Quando egli si rende conto di avere un problema serio da affrontare è probabile che si trovi già in uno stato d’animo di totale prostrazione, la quale renderà molto più pesante di quanto potrebbe essere il percorso di recupero. In questo senso, quindi, possiamo dire che l’aspetto psicologico probabilmente non è la causa della distonia focale, ma certamente ha una grande influenza sul percorso di recupero, e vale la pena di proporre alcune osservazioni.

La prima, e più importante di tutte, è che la distonia si può gestire, migliorando nettamente fino ad uscirne.

La seconda è che dipende da noi, dove per “noi” intendo l’insieme di musicista, terapeuta, amici, famigliari, colleghi e così via: il recupero dalla distonia non coinvolge solo il corpo, come abbiamo visto, ma tutti gli aspetti della nostra esistenza, di cui i pensieri, i sentimenti e le emozioni sono una parte importantissima.

Ma vediamo in dettaglio.

Ognuno di noi ha il proprio modo di affrontare le difficoltà della vita e le proprie aspettative, al quale è abituato. La distonia, come l’energia del maestro di tai-chi, colpisce più duramente quanto più intensamente il musicista ha desiderato arrivare ad alti livelli: coloro che con più determinazione e disciplina si sono sottoposti all’estenuante studio della tecnica, tanto più vengono abbattuti da quella che appare come una tegola sulla testa.

È inevitabile sentirsi maltrattati dalla vita e pensare: “ma come? Io che mi sono impegnato così tanto per raggiungere il mio obbiettivo artistico, dovevo meritarmi che uno stupido dito che non si alza mi tagliasse ogni possibilità di arrivare al risultato?”.

Lo sconforto aumenta quando i primi esami medici rivelano che “non c’è nulla che non vada”: l’elettromiografia mostra che i nervi conducono bene gli impulsi, l’ecografia mostra che i muscoli non presentano lesioni, la radiografia non evidenzia anomalie a livello strutturale, cioè l’apparato scheletrico è del tutto normale.

Di solito il medico generalista o specialista alza le spalle, dicendo che la persona sta bene, che non c’è motivo di preoccuparsi. A volte, con un sorriso che rimarrà impresso negativamente nella mente della persona che non riesce a suonare, ci dirà che in fondo non è una gran tragedia un dito che non si alza.

A me è stato detto dal neurologo che avrei fatto meglio ad appendere il violino al chiodo e a pensare ad un lavoro alternativo.

A questo punto possono sorgere una miriade di emozioni, a seconda della tendenza psicologica del musicista interessato.

Molto comune e ben comprensibile è la rabbia; rabbia contro il medico che ci considera quasi un ipocondriaco con delle turbe mentali e che gli fa perdere tempo quando ci sono persone che stanno molto peggio di noi; rabbia contro l’ingiustizia della vita, che ci mette davanti un muro che quasi tutti considerano invalicabile e che non ci meritiamo; rabbia per essere così deboli da farci mettere in ginocchio da una malattia che nemmeno si riesce a rilevare con gli esami medici; rabbia contro quel dito che ci sta rovinando la vita e che sembra ribellarsi alla ferrea disciplina che gli abbiamo imposto fino ad ora.

Altro sentimento molto comune e comprensibile è quello di impotenza. L’impossibilità di imporre la nostra volontà ad una parte di noi stessi (dito, mano o altro) ci fa sentire inermi. Ci siamo impegnati a fondo durante i migliori anni del nostro studio sognando i più alti successi, e poi ci siamo resi conto che la realtà era diversa, e che dovevamo adattarci.

Abbiamo ridimensionato le nostre ambizioni: pensavamo di diventare grandi solisti, e ci siamo adattati a fare il pianista accompagnatore, scoprendo che in fondo è un lavoro bellissimo.

Abbiamo imparato tutte quelle cose che fanno di un pianista un pianista accompagnatore (che è ben diverso, ma non certo più semplice che fare il solista!), abbiamo approfondito la nostra cultura musicale, la storia della musica, l’armonia, i solfeggio, la notazione della musica contemporanea, il basso continuo.

Ci siamo dotati di tutti i mezzi possibili ed immaginabili per affrontare una carriera musicale che si è rivelata infinitamente più complessa di quanto ci immaginassimo quando iniziavamo ad eseguire le scale ad una certa velocità.

Abbiamo conosciuto le persone “giuste”, abbiamo avuto la fortuna di introdurci in un certo ambiente che ci permette di avere un lavoro, più o meno di soddisfazione, e continuiamo ad avere la speranza di poter salire, di affrontare l’audizione per un posto di maggior prestigio.

È ben lontana da noi la consapevolezza che tutto ciò è basato su un equilibrio molto fragile, fatto di movimenti e coordinazione di muscoli, tendini, nervi e così via. Diamo totalmente per scontato che se oggi possiamo suonare il concerto per violino di Hindemith, con ulteriore impegno potremo suonare quello di Shostakovitch o di Prokofiev.

Abbiamo imparato ad impegnarci a fondo, a sfidare la fatica, a gestire la tensione di presentarsi in pubblico, abbiamo capito qual è il livello da raggiungere per affrontare un’audizione, abbiamo imparato, imparato, imparato…

Quando il nostro dito inizia a ribellarsi, lo affrontiamo con tutto il carico delle nostre acquisizioni, con la certezza che non si tratti di niente altro che di un dettaglio che ci è sfuggito.

Gradualmente ci rendiamo conto che i nostri sforzi sono inutili. A qualcuno sorge anche il sospetto che la cosa peggiori, immaginandosi le più funeste conseguenze.

Il nostro edificio di aspettative (tutt’altro che immotivate) si sgretola al primo concerto di una certa importanza in cui il nostro dito “ribelle” decide di far valere le proprie ragioni con uno sciopero non programmato.

Fin qui la storia è abbastanza comune a tutti i musicisti che soffrono di distonia.

Da qui in poi iniziano le storie individuali, che sono determinate dalle proprie convinzioni, dalla propria capacità di reagire alle avversità, dalla fede o meno nella medicina tradizionale o in quelle alternative, dalla propria capacità di analisi della situazione, dalla propria disponibilità a rimettersi in gioco e a reinventarsi.

In una parola, il dito che non si alza condiziona gli aspetti più profondi dell’esistenza e ci obbliga ad ampliare il nostro sguardo: prima il problema erano le scale a ottave, i trilli doppi, la respirazione continua, i passaggi di trentaduesimi, le diteggiature storiche; ora quei problemi ci sembrano cose da marziani.

Ci angoscia pensare che i colleghi possano venire a conoscenza della nostra difficoltà, accampiamo scuse per rifiutare offerte di concerti ai quali parteciperemmo più che volentieri per non rischiare di essere “scoperti”, cerchiamo di tenere aperte le porte che abbiamo aperto con così grande fatica, sperando in un recupero miracoloso e rapido, anche se dentro di noi sappiamo che non sarà così.

Ci sentiamo male quando il nostro allievo più scadente suona con una certa facilità quel particolare passaggio che per noi è diventato un incubo (spesso si tratta di poche note).

Ci viene da piangere quando vediamo il nostro strumento, fermo da tempo, e ci viene la tentazione di provare a suonare perché… chissà che qualcosa non sia cambiato! E scopriamo che non è così.

Ci sentiamo in colpa perché ci sentiamo così male, nonostante si tratti di un problema con il quale la vicina che soffre di artrosi farebbe volentieri il cambio. Scopriamo che intorno a noi c’è un mondo di sofferenza (malattie, vecchiaia, guerre, ingiustizie) e, anziché sentirci fortunati di non dover patire quelle sofferenze disumane, ci sentiamo male perché un dito non si alza al momento giusto.

E ci sentiamo male perché non siamo in grado di sentirci fortunati. Ci sembra che la gente ci guardi come bambini viziati che si lamentano per una malattia che non è nemmeno una malattia.

Questi sentimenti, molto violenti, colpiscono molti musicisti che devono rinunciare o almeno mettere in stand-by la propria carriera. Poi ognuno aggiunge un ulteriore carico di sofferenze, legato al proprio vissuto musicale ed extra-musicale.

Ci sono poi i tentativi falliti: le terapie che sembrano funzionare e che si rivelano del tutto o parzialmente inutili lasciano un ulteriore segno di sofferenza, creando diffidenza e pessimismo.

Non serve la laurea in psicologia per capire che affrontare un percorso di recupero con un tale carico di sofferenza non sia esattamente la condizione ideale per risolvere un problema legato alla coordinazione, alla concentrazione, alle percezioni e così via.

Ma questo è ciò che abbiamo.

Per chi riesce a non lasciarsi opprimere, c’è almeno la consapevolezza che se siamo stati in grado di sopportare tanta sofferenza, possiamo certamente trovare la forza e la determinazione per ricominciare a lottare.

Ribadisco ciò che ho detto all’inizio: non credo che l’origine della distonia sia da cercare nella psicologia. Ma sono certo che la psicologia sia uno strumento indispensabile per percorrere il difficoltoso cammino di recupero. Non sto parlando necessariamente di una psicoterapia, ma della disposizione d’animo con la quale lo affrontiamo.

Il percorso di recupero richiede tutte le nostre facoltà, fisiche e mentali.

Gli strumenti principali sono:

– una grande determinazione

– un pazienza infinita

– la disponibilità a non voler misurare in maniera matematica i miglioramenti (probabilmente dopo due mesi non sarò migliorato del “doppio” rispetto a quanto fossi migliorato in un mese)

– moltissima concentrazione

– grande disciplina

– un solido ottimismo

– la disponibilità a valutare i miglioramenti rispetto al punto di partenza e non a quello di arrivo (che appare sempre infinitamente lontano).

Recentemente va molto di moda il termine “resilienza”, un termine che riassume abbastanza bene l’insieme di queste capacità.

Altro strumento indispensabile, ancorché difficile da raggiungere, è la capacità di discernimento.

È indispensabile distinguere:

– la disciplina (utile) dalla rigidità (dannosa)

– il rilassamento (importantissimo) dalla perdita di contatto con il proprio corpo (dannosa)

– l’ottimismo (indispensabile) dalle insensate illusioni (pessime)

– la concentrazione (necessaria) dalla tensione (da evitare).

La buona notizia è che tutte queste abilità si possono imparare e sviluppare, e sono parte integrante del programma di recupero.

Il momento del “recupero” dalla DF è un viaggio dentro noi stessi, che ci obbliga a conoscerci più a fondo, ad accettarci, e ad avere un’immagine di noi più simile a “come siamo” che a “come vorremmo essere”, sapendo che non valiamo meno per il fatto di avere una difficoltà.