UN NUOVO MODO DI STUDIARE

© Alessandro Bares, 2019

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Premetto che per “nuovo” modo di studiare intendo dire “nuovo” per il musicista che affronta il percorso di recupero dalla distonia focale.

Non ho alcuna pretesa di aver inventato qualcosa che non esista già. La pedagogia strumentale già da un secolo ha superato il dogmatismo dei metodi ottocenteschi di apprendimento, sostituendolo con l’osservazione che ogni persona ha necessità e difficoltà diverse, e che quindi il buon maestro deve saper interagire con l’allievo più che imporgli delle norme inviolabili.

Uscire dalla distonia focale, per un musicista, è soprattutto un fatto musicale, prima ancora che medico. Un musicista è poco interessato a pensare che sta lottando per guarire da una malattia che non è nemmeno una malattia: quello che vuole è tornare a sentire il suo suono, quello che lo ha accompagnato durante tutta la propria vita, prima come studente e poi come musicista in carriera.

Questo significa che il momento più importante del recupero (almeno dal punto di vista emozionale, cioè della motivazione e della sensazione di essere sulla strada giusta) è quello in cui le sensazioni ed i movimenti acquisiti vengono applicati alla tecnica dello strumento, partendo da brani di estrema facilità. I musicisti si sentono rinascere quando dalle loro mani torna a sgorgare la magia della musica, senza più sentire quelle brutte sensazioni fisiche, legate perlopiù a pessime esperienze personali e professionali.

È un momento molto emozionante, ma è anche un momento molto difficile, perché il limite imposto da un repertorio così elementare (in molti casi è necessario ripartire da brani che sottoponiamo ai nostri allievi alle prime armi) diventa presto molto opprimente. I più fortunati riescono a rimanere concentrati sul fatto che suonare un brano facilissimo senza particolari difficoltà di movimento è non solo un grande miglioramento, ma è soprattutto una grande conquista. Chi non riesce a sopportare questo limite tenterà di applicare subito le nuove conquiste al repertorio a lui più caro, con la grande delusione di vedere solo miglioramenti irrisori rispetto all’impegno profuso fino a quel momento. Ma questa esperienza di delusione può essere davvero portatrice di grandi miglioramenti, ed aiuterà il musicista ad entrare in contatto con le sue reali potenzialità, talvolta ben diverse da quelle che la sua testa gli impone (non necessariamente in peggio: nella mia personale esperienza mi accorgo che la mia tecnica, dopo il percorso con la distonia, è nettamente migliorata rispetto a prima di sentirne i primi sintomi).

In una maniera che è propria di ciascuno e con l’aiuto del terapeuta (si può fare anche da soli, ma il carico emotivo è davvero imponente), il musicista che davvero vuole uscire dalla distonia troverà la maniera di riportare sul proprio strumento quelle sensazioni di piacere che determineranno la sua nuova maniera di approcciarsi tecnicamente allo strumento stesso, e dal quel momento per lui “studiare” assumerà un significato tutto diverso.

Qualcuno può essere preso dalla disperazione per non averlo “saputo prima”: non solo avrebbe evitato il problema della distonia, ma anche i suoi risultati artistici precedenti all’esperienza della distonia sarebbero stati migliori. Ma, si sa, c’è un tempo per ogni cosa. In fondo i grandi geni della musica sono quelli per i quali l’approccio “efficace” era un’abilità innata: se Heifetz era in grado di suonare il concerto di Mendelssohn con l’orchestra all’età di sette anni, possiamo solo ipotizzare che per lui tutto ciò che gli altri imparano con molta fatica era già “programmato”. Che tradotto significa: il suo cervello era in grado di coordinare in maniera perfetta (o quasi: qualcosa avrà pur dovuto studiare anche lui!) ogni movimento, ogni muscolo, ogni tendine, al fine di ottenere il miglior risultato sonoro (ovvero di movimento complessivo).

Ma cosa significa “nuovo modo di studiare”?

Cerchiamo innanzitutto di capire cosa significa “vecchio” modo di studiare.

Ognuno di noi ha un proprio percorso di studio (e non sto parlando solo degli anni in cui si ha un maestro, ma anche di tutto il tempo passato sullo strumento durante l’attività professionale), fatto di maestri validi e maestri mediocri. Da ogni maestro ognuno avrà imparato quello era in grado di imparare: spesso i musicisti dicono frasi del tipo “da questo maestro ho imparato il vibrato”, “l’altro maestro mi ha insegnato ad appoggiare il suono”, “ho imparato la respirazione da quest’altro maestro”, oppure “il mio maestro era fissato con l’intonazione”, “il mio si arrabbiava moltissimo quando acceleravo il ritmo”.

Si sa, ognuno ha le proprie manie. Gli insegnanti sono intransigenti su un aspetto della tecnica e ne lasciano correre un altro (non si può pretendere tutto e subito da un allievo!). È più che normale. Nella tecnica violinistica (mi scusino gli altri strumentisti, ma parlo di ciò che conosco più approfonditamente) ci sono insegnanti “fissati” con la postura, altri con l’intonazione, altri con l’uso dell’arco, altri con il vibrato.

Non sto dicendo che necessariamente gli insegnanti siano settoriali, ma inevitabilmente saranno più infastiditi da un difetto che da un altro, riterranno che una certa parte della tecnica sia più essenziale di un’altra, o semplicemente pensano che prima bisogna insegnare questo, poi quello e poi quell’altro, in un ordine che reputano logico.

Lo stesso vale poi per il musicista professionista durante il proprio studio privato: ognuno di noi ha le sue “fisse”, ereditate certamente da qualche insegnante particolarmente influente sulla nostra personalità. A volte queste “fisse” hanno un impatto tanto forte che non siamo in grado di perdonare a noi stessi le carenze in un certo ambito tecnico o musicale: ci infastidisce sentire lo stesso difetto ogni volta che si ripresenta una certa situazione musicale. Proviamo frustrazione e rabbia, ed iniziamo a vivere la nostra difficoltà come un nemico da combattere, anziché come un amico da cui imparare. Se non troviamo una via tecnica per risolvere il problema, la carica psicologica negativa ci porta a cercare di superare l’ostacolo “a tutti i costi”.

Io credo che qui inizi il tormentato percorso della distonia: il risultato musicale e tecnico diventa preponderante rispetto a qualunque altra considerazione, e non ci rendiamo conto che stiamo cercando di schiacciare una zanzara con un cannone da assedio. Aumentiamo la quantità di energia necessaria per sollecitare i muscoli che non rispondono, e non ci rendiamo conto che, non essendo in grado di sopportare così tanta tensione, rinunciano del tutto a funzionare, obbligandoci ad utilizzare muscoli più forti. Il nostro cervello si abitua a sovraccaricare i muscoli forti (che rispondono) e a dimenticare i muscoli più deboli (che non rispondono).

Attenzione: non si tratta di una profezia catastrofista che prevede la distonia per tutti quelli che studiano “alla vecchia maniera”. La maggior parte dei musicisti, indipendentemente dal metodo di studio, non arriva alla distonia per varie ragioni. Probabilmente la ragione principale è che la distonia è riservata alle persone che per costituzione hanno una lieve o anche lievissima debolezza in una piccola parte della mano e che, durante lo studio, esigono da quella parte di muoversi come le altre parti, senza tenere conto che quella specifica parte ha bisogno di una cura speciale.

Il “nuovo” modo di studiare parte dalla considerazione che il nostro strumento ci darà i risultati sonori desiderati solo se i movimenti del corpo (mani, dita, polso, ma non solo) che facciamo per ottenere tali risultati sono appropriati. Perché i nostri movimenti siano appropriati devono usare al meglio i mezzi che abbiamo a disposizione: muscoli, tendini, nervi, tutti coordinati dal sistema nervoso centrale.

Cosa significa questo nel concreto?

Significa che la nostra attenzione deve tenere in grande considerazione il nostro corpo (già abbiamo spiegato cosa significa nei capitoli sugli esercizi): il risultato musicale è, appunto, un “risultato”, cioè la conseguenza di una serie di azioni. Queste azioni sono i nostri movimenti.

Una nota stonata sul violino non è un problema, bensì la conseguenza di un problema (probabilmente una tensione generalizzata dell’insieme schiena-spalla-braccio-polso che ha impedito al dito di muoversi liberamente andandosi a posare nel punto preciso ove la nota esca intonata, o, per dirla con Carl Flesch, correggendo tempestivamente la propria posizione).

La qualità scadente del suono di un cornista non è un problema, bensì la conseguenza di un problema (probabilmente la mancata coordinazione dei muscoli che determinano la respirazione, e/o di quelli che danno alle labbra la possibilità di vibrare, passando per varie rigidità a carico delle spalle, della gola, della mascella e così via).

Un passaggio di agilità “sporco” sul pianoforte non è un problema, bensì la conseguenza di un problema (probabilmente legato a squilibri fra muscoli grandi e muscoli piccoli, articolazioni bloccate, polso rigido, spalle alzate, collo teso, a loro volta provocati da sensazioni falsate e scarso contatto con il proprio corpo).

Per suonare bene il violoncello bisogna avere una buona intonazione, una buona postura, un buon uso dell’arco, un buon vibrato, un buon ritmo, una buona agilità. Se uno solo di questi aspetti è carente, il violoncellista sarà mediocre. Ovviamente ogni strumento richiede una analoga serie di caratteristiche da possedere per poterlo suonare al meglio.

Tutte queste abilità hanno un punto in comune: il movimento del corpo. Ad ogni carenza tecnica e musicale corrisponde una serie di movimenti del corpo non bene acquisiti, forzati, non controllati, bloccati.

In termini di pratica quotidiana, “nuova” maniera di studiare significa affrontare il lavoro musicale partendo dal proprio corpo.

La mia opinione sul riscaldamento è in continua evoluzione.

Fino a poco tempo fa pensavo, come tutti, che una prima fase di studio dedicata al riscaldamento fosse indispensabile, prima di dedicarsi allo studio vero e proprio. In questo senso “riscaldamento” era una maniera di prepararsi ad un lavoro pesante, con qualche esercizio di risveglio del corpo, qualche brano molto facile rispetto al nostro livello. In sintesi, una maniera di predisporre il corpo al lavoro “duro” dello studio vero e proprio.

In questo momento mi insospettisce il concetto di “studio vero e proprio” distinto dalla fase di “riscaldamento”: le precauzioni che vanno prese in fase di riscaldamento, devono permanere durante tutto il tempo dedicato allo studio.

Questo non significa che non sia una buona idea iniziare con qualcosa in cui ci si senta bene, come ad esempio qualche minuto di scale e arpeggi, o un brano semplice, o il brano stesso che vogliamo affrontare ma eseguito lentamente. Lo scopo è quello di sentirsi bene da subito. Durante tutto il tempo dello studio è indispensabile che questa sensazione di benessere sia costante. Se non è così è perché non stiamo studiando il pezzo adatto al momento, o nel modo adatto (sempre relativamente al momento!), o, come si dice, “non è giornata”.

Il momento dello studio è molto delicato: le vecchie abitudini di movimento sono dietro l’angolo, pronte a distruggere tutto il lavoro fatto precedentemente. Dobbiamo essere spietati nella scelta del repertorio che affrontiamo e soprattutto nella maniera di affrontarlo. Non è una vergogna rimandare la preparazione di un brano ad un momento in cui ci sentiamo più pronti (ancora una volta dobbiamo imparare dai cantanti!).

Lo scopo dello studio di un brano è soprattutto la capacità di affrontarlo nella maniera giusta, cioè utilizzando la giusta energia, mantenendo costante il contatto con il corpo, sentendo costantemente le tensioni e sciogliendole, trovando le diteggiature che ci permettono di stare più rilassati (attenzione: non sto dicendo di fissarle indelebilmente! Meglio di tutto è non fissarle affatto, lasciando che le mani sviluppino la capacità di inventarne costantemente di nuove), sentendo il contatto fisico fra le dita e lo strumento, facendo attenzione a che tutto il corpo partecipi all’esecuzione, e che il lavoro delle mani non metta in tensione spalle, braccia, polsi, bacino, gambe, gola e così via.

Il risultato sarà l’esecuzione del brano. Attenzione: ho detto il risultato, non lo scopo! Molti brani vengono giustamente affrontati per imparare qualcosa, più che per eseguirli perfettamente in un concerto o registrazione.

Può sembrare un discorso un po’ da “terapeuta”, ma è esperienza mia personale di musicista (continuo a sentirmi più musicista che terapeuta!): le difficoltà tecniche si superano migliorando il movimento, non angosciandosi per le note sbagliate. I trilli si studiano rilassando braccio e polso, non cercando di muovere le dita più velocemente. I grandi salti sul pianoforte sono possibili solo se lo spostamento di mano, polso e braccio è fluido, e se il braccio “cade” senza resistenza. Le chiavi della parte inferiore del clarinetto possono essere messe in azione con agilità solo se il mignolo della mano destra dispone di tutta la libertà di movimento possibile.

Questo modo di studiare, basato sulla percezione del movimento e delle proprie tensioni, all’inizio è molto stancante. Può essere addirittura sconcertante rendersi conto di quanta stanchezza si accumuli durante lo studio. Si richiede una concentrazione (lo ripeto ancora: da non confondere con la tensione!) mai sperimentata prima, e la nostra resistenza si riduce brutalmente. Già dopo pochi minuti è possibile sentire che non si può più continuare.

Ma… niente paura! È solo il sintomo del fatto che abbiamo finalmente iniziato ad occuparci del nostro corpo. Iniziato, appunto, e quindi non siamo abituati a porre tanta attenzione a così tante sensazioni fisiche. E poi questo significa che finalmente abbiamo imparato a sentire la fatica! Ed è una delle conquiste più grandi: prima eravamo così impegnati a suonare grappoli di note senza sbagliarne una da non accorgerci che stavamo utilizzando i nostri muscoli come delle macchine da guerra. Ora ci accorgiamo che ad ogni suono corrisponde una serie enorme di informazioni da dare e di sensazioni da ricevere (immaginatevi di tenere sotto controllo il contatore di MegaByte in entrata ed in uscita durante una chiacchierata su Skype!). Ogni suono è un miracolo di tecnica, il risultato di una sapienza e maestria di movimento che abbiamo impiegato anni ad acquisire, danneggiare, correggere, acquisire di nuovo, ritrovare e così via.

Voglio ripeterlo ancora: ogni suono è un “risultato”!

Con lo studio poi tutto migliora: aumenta la resistenza, i muscoli diventano più reattivi, lo sforzo profuso per percepire le sensazioni diminuisce. Lentamente alcuni movimenti diventano automatici (ciò è necessario, ma molto pericoloso: tenete sempre d’occhio i movimenti automatizzati, che hanno tendenza a diventare meccanici e a perdere il contatto con il corpo).

E qui, sono certo, il musicista si chiederà: ma quanto si deve studiare? Oppure: quanto ci è concesso studiare?

Risposta: il più possibile! Ma con molta attenzione alla parola “possibile”. Il vostro corpo vi dirà, di giorno in giorno, di volta in volta, fino a dove potete spingervi. Ascoltatelo!

Non è necessario fermarsi ai primi segnali di stanchezza, ma qualunque musicista può sentire facilmente quando la sua concentrazione non è più al 100%. E lì bisogna arrendersi: può bastare una breve pausa, ma continuare a studiare significherebbe tornare indietro.

Un segnale importante per capire il punto oltre il quale è meglio non andare è la ricomparsa delle vecchie abitudini. Stando molto attenti è possibile captare il “ritorno” delle vecchie abitudini di movimento ancora prima che si manifestino visibilmente.

A questo punto, vedo l’orrore diffondersi sulla faccia dei musicisti abituati a preparare il concerto in pochi giorni, grazie alla propria prodigiosa prima vista e ad una tecnica sicura che (prima dell’esperienza della distonia!) non li aveva mai abbandonati.

Sorge spontanea l’osservazione: ma allora per preparare un concerto ci vuole una vita!

Risposta: sì, nel vero senso della parola! Un concerto, un brano, un suono sono il risultato (avrete notato una certa insistenza su questa parola) di una vita di studio. È un dato di fatto. Se io mi mettessi a studiare il flauto traverso, probabilmente impiegherei decenni prima di arrivare ad avere un suono comparabile a quello di Rampal, anche su una singola nota. Anzi, con ogni probabilità non ci arriverei proprio.

L’esecuzione di un brano in un concerto diventa, con la “nuova” maniera di studiare, il risultato (di nuovo!) di una serie di abilità acquisite, finalizzate a migliorare la propria tecnica individuale, ed applicate al brano in questione.

Mi vergogno un po’ ad esprimere un concetto tanto banale ed “antiquato”, già sviscerato dal pianista Alfred Cortot all’inizio del Novecento nelle sue meravigliose edizioni da studio del repertorio chopiniano, ma sento la necessità di farlo poiché i musicisti se ne dimenticano spesso: per eseguire un brano è necessario dominare la tecnica che serve per eseguirlo. In altre parole, è inutile affrontare le prime battute del concerto per violino di Beethoven se la nostra tecnica delle ottave è traballante: lo studio ci procurerà solo frustrazione ed insicurezza, e non arriveremo ad assaporare il gusto di eseguire un pezzo così meraviglioso.